Zapatismo. La storia non è finita
Da Carta 18 dicembre 2003 n.46
Hermann Bellinghausen [21.12.2003]
Il primo gennaio del 1994, un piccolo esercito indigeno, fino ad allora sconosciuto, prese cinque città dello stato messicano del Chiapas e lanciò un grido, "Ya basta", che fu ascoltato in tutto il mondo. Con il volto coperto, armati soltanto di fucili e pistole, i membri dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale lasciarono il paese col fiato sospeso e dissero: siamo qui, esistiamo.
L’audacia dell’azione e la forza del messaggio impedirono che il governo avesse il tempo di sterminarli. L’Ezln insorse la stessa notte trionfale in cui entrava in vigore il Trattato di libero commercio con il Nordamerica, quello che prometteva di portare il Messico nel Primo mondo. Gli insorti, appartenenti ai popoli maya della regione (tzeltales, tzotziles, tojolabales y ch’oles), dimostrarono al mondo che milioni di indigeni messicani vivevano nella miseria, nell’oblio, in un lento genocidio. E che, almeno loro, avevano deciso di non arrendersi.
Il Chiapas cessò di essere l’ultimo angolo del paese per andare a occuparne il centro. Quella stessa notte, pochi lo notarono, cominciava a morire il regime del Pri (il Partito rivoluzionario istituzionale), che aveva governato il paese quasi ininterrottamente per settant’anni.
Le forze armate governative lanciarono una grande offensiva per accerchiare i ribelli nei loro territori: los Altos del Chiapas e le montagne della Selva Lacandona. I mezzi di comunicazione di tutto il mondo rivelarono allora che, alla base di questo modesto esercito contadino che si disinteressava del potere, si trovavavano centinaia di villaggi e comunità che avevano mantenuto il segreto per dieci anni, mentre l’Ezln cresceva nelle montagne e smetteva di essere una guerriglia più o meno tradizionale per divenire parte del popolo, strumento della sua lotta. Insieme, l'Ezln e il popolo indigeno, faranno, a partire dal 1994, un audace salto nella modernità che sorprende e smaschera un paese che si definiva " contemporaneo", se non " di tutti gli uomini", come sognava Octavio Paz, almeno contemporaneo agli Stati uniti. Gli zapatisti segnarono definitivamente la chiusura del secolo. Le loro domande furono adottate e legittimate da più di dieci milioni di indigeni dell'intero paese, e il governo priista si vide costretto a trattare con gli insorti.
Nel 1995, l’ultimo presidente del Pri violò la tregua, occupò militarmente le comunità ribelli e riprese la guerra a "bassa intensità". Da allora, una nuova forma di lotta si impadronì dei giorni e dei territori di migliaia di donne, uomini, bambini e anziani: la resistenza.
L’esercito zapatista tornò sulle montagne da cui era venuto e, dal gennaio del 1994, non ha sparato un solo colpo. A differenza delle guerriglie latinoamericane tradizionali, l’Ezln offre pace mentre chiede giustizia e dignità. Centinaia di simpatizzanti e membri delle basi di appoggio dell’Ezln, tuttavia, sono stati assassinati durante la fragile tregua e, a migliaia, hanno sofferto l’esilio, fino oggi senza ritorno.
In un mondo di tradizioni millenarie sempre mutevoli, nel cuore di un movimento sociale straordinario, i popoli ballano, i giovani si innamorano, i bambini e le bambine entrano nell’incanto del mondo delle immense montagne verdi dove sono nati liberi, e dove oggi sono sotto la minaccia permanente di una guerra di sterminio. Il mais nasce nei campi. Il Popol Vuh, il loro libro antico, dice che i popoli maya sono fatti di mais. Nei campi e nei villaggi, la vita quotidiana fiorisce tra il pericolo e la resistenza attiva, i modi di vivere che devono imparare i popoli zapatisti. Anche in questo modo, gli zapatisti insegnano al mondo ad essere loro contemporaneo. Nessuno in Messico va veloce verso il futuro quanto loro, " i piccoli, i dimenticati di sempre". Il loro tempo avanza tanto in fretta da sembrare trattenuto. E’ la maschera della fretta.
Un altro progresso
In che momento del mondo appare e si sviluppa questo zapatismo? Un fatto storico tanto ripetuto da farsi paradigma è che il "progresso" arriva sempre ai popoli in forma di dominazione, spesso militare e comunque brutale. Perché i confini del nuovo "progresso" cominciano sempre dal potenziale bellico. Senza bisogno di generalizzare troppo, il passato mezzo millennio di "progresso" nel continente americano è stato sistematicamente dominatore, repressore e, molte volte, genocida con i popoli nativi.
Ora si vede che la storia umana è un’interminabile sequenza di finzioni, una sorta di danza letale per i corpi e le menti dei dominati. Un ballo dove i dominati sembrano silenziosi. Almeno questo è ciò che ci si aspetta da loro. Per i popoli, le egemonie nazionali o straniere portano sempre al peggio. Paradossalmente, nel mondo di oggi, parlare di popoli significa in ogni caso parlare di nazioni: un concetto più vasto dell’unione di popoli che la compongono, che così uniti guadagnano poteri e nomi.
Non bisogna confondere le legittime resistenze di liberazione nazionale con le regressioni sociali "giustificate" dal razzismo, dalla religione, o dalla semplice rapina territoriale. Gli avvenimenti accaduti in Bolivia, Ecuador o Messico, dove i popoli insorgono per difendere loro stessi e per difendere la nazione alla quale appartengono, non sono uguali agli orrori del Congo e della Cecenia, o a quello che è successo in Eritrea, Somalia o in ex Jugoslavia (regressione, sì, ma balcanizzante e criminale).
In fondo, tutte le resistenze affrontano oggi una medesima, sola conquista. Nazioni intere distrutte, come l’Afghanistan o l’Iraq, o smembrate a carne e fuoco come la Palestina, il Kurdistan e il Tibet. Con le dovute differenze, per gli indios del sud, essere alla mercè dell’esercito messicano rappresenta la stessa offerta di progresso che portano gli eserciti di Israele, Turchia, Cina, Gran Bretagna, Russia e, prima di tutto e dietro (quasi) tutti, l’esercito imperiale statunitense. La retorica post-salinista [da Salinas de Gortari, presidente del Messico priista ai tempi dell’insurrezione del 1994, ndt], fino ad oggi vigente nell’amministrazione Fox e nelle forze armate, agita il vessilo di morte della balcanizzazione per "mettere ordine", non verso il presunto separatismo ma nella difesa che i popoli ribelli fanno della sovranità nazionale.
Il ventunesimo secolo arriva calpestato dall’impero di Washington e dai suoi satelliti, a una dimensione mai vista prima, una dimensione che per il momento si presume imbattibile. Ma in America latina, e specialmente in Sud Amrica, nascono resistenze nazionali che si stanno mostrando vie percorribili, e dico questo senza eludere il riformismo possibilista. I processi popolari di Argentina, Brasile, Venezuela, come anche i casi di Ecuador e Bolivia, essendo dei laboratori ed essendo in pericolo, reagiscono contro la stessa dominazione globale permessa dalle elites e dal capitale di ciascun paese. Di questo si tratta anche nel movimento zapatista del Chiapas e in buona parte del movimento indigeno messicano. In nome della sovranità, della unità nazionale, gli zapatisti convertono lo "Ya basta!" in qualcosa di molto difficile da sconfiggere: uno stile di vita comunitaria che resiste alla dominazione.
Con la negazione del compimento del minimo di rivendicazioni contenute negli accordi di San Andrés, i successivi governi messicani rivelano la loro intenzioni, niente affatto onorevoli e ancor meno nazionali. I poteri della Unione e delle forze armate sostengono che l’autodeterminazione (che implica lingua, credenze, forme di governo e territori ancestrali) minaccerebbe l’unità nazionale e persino la democrazia. Si tratta di una cortina fumogena per distrarci dai veri pericoli del "libero" commercio controllato dalla metropoli, dalle privatizzazioni, dagli interventi mascherati della mano di Washington che violano quello che è nostro e ciò che in tutto il mondo si rispetta come Messico.
Con i loro limiti e con gli occhi neri, i processi latinoamericani di ribellione, resistenza e autodeterminazione minacciano gli interessi dell’impero. Per di più, quello che avviene nei nostri paesi è una speranza che i popoli decidano da soli, e una lezione per tutti i popoli conquistati del mondo. Un altro progresso è possibile. L’esperienza contemporanea dell’America latina è pacifica ed energica. Che alcuni governi e movimenti alternativi si presentino come esperimenti non significa che da essi non nasca qualcosa di autentico, forte e definitivo.
Il ritorno del subcomandante Pedro
"Vent'anni sono molto pochi. Manca…", così conclude la sua intervista il maggiore Moisés nel libro di Gloria Muñoz Ramirez. Il comandante Abraham, un altro veterano zapatatista, è ancora più esplicito: "Sono passati venti anni, ma stiamo cominciando".
Fa pensare che vedano così le cose alcuni dei più antichi membri dell'organizzazione indigena politico-militare che dieci anni fa disse "Ya basta" e fece suonare il suo allarme la stessa notte che l'"Alto" Messico debuttava in società come paese "del primo mondo". Il salinismo era al culmine del suo successo e del suo potere. E se si cade da molto in alto, è certo che il colpo contro il suolo sarà più forte.
Con una magia mediatica e sociale che essi stessi non immaginavano e che oggi tuttora non riescono a spiegarsi, i combattenti dell'Ezln hanno cambiato le cose una volta per sempre, nel corso di una sola notte di fine anno che si sarebbe prolungata per dodici giorni di guerra. Dopo un anno di resistenza attiva. Dopo sei anni di tradimenti e menzogne. Dopo la fine del governo del Pri. Così, sono passati dieci anni. Quelli della guerra, della resistenza, dell'autonomia, della mobilitazione nazionale e intergalattica, dell'installazione definitiva dei popoli indigeni al centro delle decisioni e della coscienza nazionali.
"Per la verità, non pensavo che avremmo visto tutto questo. Non siamo morti tutti, siamo qui e manca ancora molto", dice il maggiore Moises. "Adesso il popolo del Messico è quello cui tocca decidere che cosa è stato ottenuto e soprattutto cosa manca da fare", aggiunge.
Sappiamo tutti che si tratta di una storia non finita. I due anniversari che si stanno festeggiando sono un punto e a capo, segnato dal caso del calendario gregoriano. Quelli che hanno fondato l'Ezln hanno protetto il segreto nel seno delle comunità indigene per dieci incredibili anni, dal 1983 al 1993, e oggi, dopo altri dieci anni, ancora si meravigliano di essere vivi, e conservano l'anima intatta. Allora, la notte era loro alleata. Oggi lo è anche la luce del giorno.
Hanno sviluppato una prolungata successione di giochi di specchi, che ha cambiato la mappa mentale e fisica della sinistra messicana. In questi tempi di celebrazione e recupero della memoria profonda, gli zapatisti dicono che è il momento giusto per rivelare qualche segreto in più. Ne proteggono ancora molti. Oggi parlano, con calore, di uno dei loro segreti più cari: l'esistenza del subcomandante Pedro, quella leggenda viva in tante delle comunità tojolabales e tzeltales in cui è stato. Un segreto triste e ispiratore, che si mantiene attivo nel ricordo dei combattenti dell'Ezln. Quell'uomo alto e scherzoso che le donne di La Realidad e Guadalupe Tepeyac non riescono a menzionare senza scoppiare a piangere. I bambini che hanno giocato a calcio con lui o che da lui hanno imparato a giocare a scacchi (ancora giocano), oggi sono adulti, padri e madri di famiglia, o insurgentes.
Il "sub" Pedro cadde il primo gennaio del 1994, nella presa di Las Margaritas, abbattuto dai poliziotti che proteggevano il palazzo del municipio che, comunque, venne preso dagli insorti. Maestro e comandante del maggiore Moises, maestro e fratello del subcomandante Marcos, fu in misura importante costruttore dell'esercito indigeno più importante del XX secolo latinoamericano, e di quel portento di organizzazione civile che sono state e continuano ad essere le comunità ribelli della Selva Lacandona, la zona nord, Los Altos e la Frontiera del Chiapas. Abituati a leggere i comunicati del Comitato clandestino rivoluzionario indigeno - Comandancia generale (Ccri-Cg) dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale e i diversi scritti di Marcos, e a seguire le notizie, le denunce, le proteste e le inizative, forse ci siamo dimenticati che i popoli, vecchi e nuovi, la loro costruzione di municipi autonomi, le truppe insorgenti che aspettano e vigilano dalle montagne, sono una cosa sola. E che così come le comunità sono andate di battaglia in battaglia, gli insorgenti le hanno seguite, con le armi abbassate, ma ancora in pugno. Di battaglia in battaglia, attenti.
L'aria di festa e di celebrazione di oggi non toglie nulla al fatto che i festeggiati, per quanto festeggiando, sono ancora, minuto per minuto, assediati e minacciati da uno spaventoso apparato militare del governo federale. Che le loro richieste, che oggi sono nazionali, restano inascoltate. Che i giorni della resistenza sono più lunghi dei giorni normali. Che i loro dieci anni sono molti di più di dieci anni normali. Più intensi. Più interessanti. Gli indigeni di tutto il paese, con lingue e accenti diversi, hanno fatto propria la lotta zapatista.
La società della maggioranza messicana, miope e nascosta, non potrà più chiudere gli occhi davanti alla realtà dei popoli indigeni, né alla ricchezza artistica, politica e culturale che portano alla vita nazionale. Né alla loro vita comunitaria, che è il loro capolavoro.
Il maggiore Moises dice del sub Pedro: "Ha fatto tutto quello che doveva fare". Rivela così una concezione della morte che, a ben vedere, è una concezione della vita. La lotta dura quanto dura. Non è né lunga, né corta. È quel che deve essere. Questi zapatisti del Chiapas che, alla vigilia del 31 dicembre sapevano che di lì a pochi giorni sarebbero potuti morire, sono per la maggior parte ancora lì, e sono cresciuti, in tutti i diversi significati del termine. Perciò l'abitudine di festeggiare ballando. Così hanno festeggiato tutte le loro successive sopravvivenze di questi anni. Non riesco a immaginare un migliore riconoscimento per un rivoluzionario che quello di un altro rivoluzionario che dice di lui: "Ha fatto tutto quello che doveva fare". L'espressione potrebbe essere estesa in omaggio al piccolo grande esercito di popoli.
L'apparizione dell'Ezln è stata quello che potremmo semplicemente chiamare uno spartiacque, qualcosa che non si chiude e continua a inventare. Questa storia in corso è un'esperienza indispensabile del presente. E del futuro, quando la storia della ribellione zapatista, anche se continuerà a restare senza conclusione, sarà arrivata più lontano.