Una esperienza in Sierra Leone - rapporto da Freetown

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Un contributo di Massimo Bosco dalla Sierra Leone 

La Sierra Leone, dal punto di vista economico, compare nelle statistiche internazionali ormai da parecchio tempo unicamente per evidenziare che si tratta del paese probabilmente più povero in assoluto del pianeta, almeno sulla base PIL prodotto. Una visita in questo paese, che  ho potuto effettuare in Gennaio, lascia indubbiamente il segno anche per la vita futura, nel nostro mondo di bisogni spesso indotti e quasi mai indispensabili.
La prima impressione che si ha  arrivando a Freetown in Gennaio, mentre in Europa la temperatura è sotto zero, è di una afa irresistibile:  scendendo dall’aereo vieni subito avvolto dai trenta gradi di temperatura e dall’umidità africana, e ti sembra che manchi l’aria. Per fortuna l’ampio sorriso amico degli amici italiani, che sono venuti a prenderci all’aeroporto, ti dà subito una certa sicurezza, malgrado l’ambiente sconosciuto e prima di essere attorniati da alcuni mutilati (dalla guerra o dalla tubercolosi) che ti chiedono immediatamente dei soldi. Poi esci in strada e ti accorgi che la città non c’è, almeno non immediata; per raggiungerla devi passare un braccio di oceano con il ferry-boat, il che vuol dire circa due ore considerato che gli orari non sono proprio rispettati (approssimativamente tre passaggi al giorno) e che qualche inconveniente può sempre accadere, come le reti dei pescatori locali che si impigliano sui motori con conseguente fermata sull’acqua di durata più o meno lunga. Un viaggio in ferry, ancorché breve, è sempre una piccola avventura da raccontare, se non altro per tutta la gente locale con la quale vieni in stretto contatto; vi sale tutto un mondo colorato di persone che vanno e vengono in città dalle periferie o dai villaggi vicini, il più delle volte per fare dei piccoli commerci di merce (portata sempre in testa) che permetta loro di mangiare per quel giorno. Vedi vestiti di tutte le forme e colori, giovani, anziani e bambini (questi sono veramente tanti e dappertutto in Sierra Leone) tutti con i loro volti d’ebano, i profumi, gli sguardi dai quali non si capisce bene cosa pensino e quali sentimenti provino nei tuoi confronti in quanto bianco, straniero e, questo sì pensano, senz’altro più ricco di loro.
Poi il ferry arriva alla capitale e tutti sciamano velocemente verso la città, un luogo a dir poco  tremendo: Freetown è praticamente un immondezzaio a cielo aperto, come le sue fogne, dove regna il caos e la sporcizia oltre all’apatia dei suoi abitanti. Tutti  cercano di vendere qualcosa in  improbabili negozietti o su banchi improvvisati che da noi nessuno avvicinerebbe vista la sporcizia che esprimono; il modesto margine di guadagno di questo commercio alle volte infinitesimale  serve per il cibo quotidiano; domani è un altro giorno e si vedrà cosa fare.
Non esiste un monumento interessante (a parte un grande albero che qui chiamano cotton tree, - ma il cotone non c’entra -  simbolo un po’ del paese), una via principale, un qualcosa che ti faccia capire che sei nella città capitale di una nazione,  tutti termini che qui hanno significati piuttosto blandi. Sulle colline circostanti vedi le nuove costruzioni, tutte casette basse al pianoterra costruite ovunque ci sia un po’ di spazio, senza alcuna armonia ne’ stile.
Infine si parte verso l’interno del paese, con il pick-up, indispensabile su queste strade piene di buche se asfaltate (poche) o dalla terra rossa che resta impressa negli abiti, dove la guida deve essere sempre attenta sia per il terreno accidentato che per la gente che cammina lungo i bordi della pista, sempre con qualcosa in testa come banane, legna, vino di palma. Sulla strada si pongono ad asciugare gli abiti (ancorché appenderli) e a seccare il riso, sperando che i mezzi (pochi) non ci passino sopra con le ruote.
Dieci giorni di “full immersion” in Sierra leone ti permettono di conoscere abbastanza di questo paese, anche se naturalmente ci vorrebbe molto più tempo; alcuni amici  dopo trent’anni di permanenza in questo paese dicono che non tutto è chiaro, come per esempio i cosiddetti riti segreti che coinvolgono esclusivamente i locali); c’è comunque la possibilità di entrare veramente in contatto con la gente, conoscere come vive tutti i giorni, quali sono i problemi, come sono strutturate la società e la famiglia. Qui l’unica cosa che veramente non manca è il tempo; si passa la giornata, durante la quale spesso non c’è nulla da fare, attendendo qualcosa che probabilmente non arriverà mai, per cui la gente può fermarsi a raccontare, la loro vita attuale e le storie sulla guerra.
La Sierra Leone viene da una guerra civile durata dieci anni (finita solamente nel 2002)  che è stata devastante per il paese non solo dal punto di vista economico ma anche umano e sociale. I segni della guerra si vedono un po’ dappertutto; in particolare sono molte le case bruciate dai ribelli e abbandonate, a testimonianza di una ferocia terribile e della voglia semplicemente di fare del male che lascia molti interrogativi sulla natura dell’animo umano.
Alcune cittadine anche importanti come Kabala o Kambia al confine con la Guinea, hanno avuto anche l’80% delle case distrutte: per un popolo da sempre povero si può immaginare cosa vuol dire ciò in termini di costi economici ma soprattutto sociali. Altissime sono state chiaramente le perdite di vite umane, ma questa è un’altra storia da raccontare che merita più tempo e spazio. Dobbiamo considerare che i ribelli erano quasi sempre gente dei villaggi, conosciuti e spesso parenti di coloro che andavano a uccidere o a tormentare senza una apparente ragione se non quella di creare un clima di terrore e paura e poter quindi saccheggiare senza trovare una effettiva resistenza.
Le conseguenze della guerra sono ancora molto pesanti; lo Stato, almeno nei termini che conosciamo noi occidentali, non esiste. La polizia è assolutamente corrotta e spesso più violenta di tutti, manca completamente l’energia elettrica per cui tutto viene fatto rigorosamente a mano, l’acqua è quella dei pozzi  che però non è chiaro dove vada a pompare (non è comunque cristallina ed è meglio non berla). Alla sera tutti hanno quei lumini a olio o kerosene che da  noi si usavano forse nell’anteguerra nelle campagne; si fa un po’ di luce e tutti intorno a chiacchierare. Qualche generatore produce un po’ più di luce sotto il rumore costante dei motorini a gasolio.
Abbiamo visitato diverse città e villaggi, ma la situazione non cambia molto fra un luogo e l’altro anche se nei villaggi sperduti nella foresta e alle volte difficili da raggiungere anche a piedi hai veramente l’impressione di tornare indietro nel tempo, e non solo per pochi decenni ma piuttosto di alcuni secoli. Le case sono prevalentemente di fango coperte da rami secchi, insomma la tipica capanna; all’interno non c’è nulla se non una puzza terribile e nauseabonda. Lì dentro dormono in tanti, una famiglia media (le famiglie qui sono sempre allargate) va da quindici a venti persone, buttate spesso su delle semplici stuoie. Di notte è pericolo uscire, per la natura selvaggia che produce serpenti velenosi e altre bestie come i ragni e gli scorpioni che è assolutamente meglio evitare. Case senza bagni e senza acqua; praticamente quattro pareti. L’unica differenza con la città è che i tetti lì sono in lamiera; per il resto sono le stesse quattro pareti. 
La realtà familiare è la più varia; una donna generalmente ha sette o otto figli, dei quali tre o quattro muoiono nei primi cinque anni di vita (anche perché non molto seguiti, soprattutto dal punto di  vista igienico) e le rimangono gli altri. I matrimoni sono abbastanza regolari nella forma, anche se non durano generalmente molto perché spesso combinati dai genitori e quindi senza amore ma una specie di contratto destinato poi inevitabilmente a fallire. Anche le donne hanno cominciato ad avere una certa autonomia da questo punto di vista e lasciano i mariti giudicati incapaci o di poca considerazione per andare con un altro uomo; il problema è che quasi sempre hanno già diversi figli da accudire, ai quali si aggiungeranno quelli provenienti dalla nuova unione. Non è raro per un uomo avere dieci figli. Inoltre, i musulmani (che in Sierra Leone sono il 50% della popolazione) possono avere contemporaneamente più mogli, e conseguentemente molti figli, da donne diverse,  che vivono tutti nella stessa promiscuità familiare.  
Malgrado tutto i sierraleonesi, la cui età media è bassissima, non danno l’impressione di essere in depressione, come potrebbe supporre una tale situazione (depressione che invece colpisce prevalentemente noi occidentali), anzi, il clima è generalmente sereno; la gente ti sorride, si mostra disponibile, cerca di metterti a tuo agio o dimostra piuttosto una certa curiosità nei nostri confronti senza essere invadenti. Abbiamo l’impressione che alcune cose negative della vita siano date per scontate ma che tutto debba comunque andare avanti.
La società è impostata con una certa gerarchia tradizionalista che durerà probabilmente ancora a lungo. Ogni villaggio ha il proprio capo, il quale quasi sempre detiene un certo potere molto più forte di quello che può derivare da una carica pubblica; in una scala piramidale il “paramount chief” è a sua volta responsabile di molti villaggi (anche 100/150 villaggi) e il suo potere locale è notevole, così come le mogli che può scegliersi (anche alcune decine nel corso della vita). Tutto apparentemente rientra in una certa armonia sociale legata alle tradizioni tramandate dalla notte dei tempi e che non vengono scalfite, almeno per il momento, dalla cosiddetta vita moderna. 
L’anno prossimo sono previste le elezioni politiche con la nomina (o la conferma) del Presidente, ma l’impressione è che le cose non siano destinate a migliorare molto, a prescindere da chi verrà eletto. Qualcosa potrebbe cambiare se entrasse in funzione una nuova diga sul fiume Rokel che la Salini Costruzioni di Roma (Salcost Spa) sta costruendo da oltre trent’anni; abbiamo potuto visitare quest’opera monumentale  ed è abbastanza impressionante. La diga dovrebbe permettere di produrre l’energia elettrica, ma la potenza è stata tarata sulla base dei bisogni di molti anni fa per cui appare già insufficiente per il paese: la sua entrata in funzione è prevista entro i prossimi due anni, e dovrebbe coprire le esigenze di almeno una parte di Freetown.
ASOC non ha progetti di Cooperazione con la Sierra Leone, e la momento appare anche difficile prevederne qualcuno; comunque in futuro, se si trovasse un partner locale affidabile, si potrebbe anche pensare a qualcosa di significativo anche con la nostra Associazione.  
            

Gennaio 2006                                                             Massimo Bosco        

La Sierra Leone ha una superficie di circa 71.759 km quadrati e circa 5.500.000 abitanti. La capitale Freetown ha circa 700.000 abitanti. E’ una Repubblica Presidenziale e nel 2007 sono previste le nuove elezioni politiche. Dal 1991 al 2002 questo paese è stato sconvolto da una sanguinosa guerra civile e da continui golpe militari. La posta in gioco è generalmente il controllo delle ricchissime miniere di diamanti. Il principale gruppo ribelle, il famigerato Fronte Rivoluzionario Unito (RUF), è diventato tristemente famoso nel mondo per la pratica delle amputazioni di gambe, braccia, orecchie e naso (sembra che almeno 30.000 persone le abbiano subite) e per i bambini soldato: bambini rapiti dai loro villaggi, drogati e spinti a fare le peggiori nefandezze. A difendere Freetown e la popolazione civile dalla violenze del RUF è intervenuto un massiccio contingente dell’ONU, formato per gran parte da soldati nigeriani (ECOMOG, la forze di pace dell’Africa Occidentale). I morti conteggiati nella guerra civile sono stati circa 100.000.   Nel 2002, dopo la firma della tregua e la fine della guerra, si tengono le elezioni e viene nominato l’attuale Presidente Ahmad Kabbah.
In cifre:
speranza di vita: 41 anni
mortalità infantile: 180 per mille
mortalità sotto i cinque anni: 316 per mille
medici ogni 100.000 abitanti: 7
acqua potabile: 57%
alfabetizzazione: 36%
PIL pro capite: $ 490

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